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Il futuro è complesso ma non c’è alternativa alla transizione tecnologica

da | 19 Apr, 21 | Primo piano |

David Orban è considerato uno dei massimi esperti del rapporto fra tecnologie e sviluppo umano. Con lui abbiamo discusso della crisi, dell’impatto delle nuove tecnologie e del mondo che ci aspetta. Con un occhio di riguardo al ruolo dell’industria e dell’automazione. Armando Martin Guru, visionario, innovatore, accademico, investitore. Impossibile trovare una definizione univoca e soddisfacente per David Orban. Da oltre 20 anni la sua è una delle menti più acute, libere e autorevoli nel campo dell’innovazione e degli scenari futuri. In un momento di incertezza come quella attuale, lo abbiamo interpellato in esclusiva per i lettori di Automation Technology. Ispirandoci al suo motto “Searching for the right question” gli abbiamo posto delle domande con lo scopo di catturare una prospettiva più ampia sul futuro che ci aspetta.

Professor Orban, partiamo dalla pandemia. Da più parti si sostiene che la crisi sanitaria può essere un’opportunità per accelerare l’innovazione tecnologica in modo etico e consapevole. Fino a che punto ritiene fondata questa analisi?

Salvo non volerlo vedere di proposito, per chiunque è eveidente che senza la tecnologia l’impatto della pandemia sulla società sarebbe stato enormemente più grave. A partire dall’utilizzo  di Internet e delle applicazioni di videoconferenza e di collaborazione online, molti di noi in tantissime occupazioni hanno potuto continuare a lavorare anche in isolamento. In altri settori l’impatto tecnologico è stato ancora più evidente, ad esempio l’automazione di precisione applicata all’agricoltura ha fatto e sta facendo un enorme differenza: il 2% della popolazione in Italia e nel mondo oggi è in grado di produrre le calorie necessarie per soddisfare i bisogni del 100% della popolazione. Questo è possibile perché abbiamo dei “robot” che chiamiamo trattori i quali lavorano al nostro posto. Questo trend si registra anche in Paesi come l’India dove studi accurato dimostrano che l’energia investita in agricoltura è rappresentata per il 5% dalla forza muscolare umana e per il 95% dalle macchine. In generale, se questa consapevolezza porterà, dopo la pandemia, a una ristrutturazione delle attività produttive in direzioni più ecologicamente sostenibili, eticamente inclusive o attente all’emancipazione delle persone, lo vedremo. La società di per sé non diventa più buona per una pandemia. Certo l’opportunità per un cambiamento c’è, bisogna approfittarne.

Le imprese industriali investono nelle nuove tecnologie per aumentare la produttività e i ricavi, sperabilmente in un quadro di sviluppo economico sostenibile e di maggiore responsabilità sociale. Come giudica questo scenario e in che modo la crisi economica può influenzarne lo sviluppo?

Negli anni ‘80 con la nascita dei primi movimenti ecologisti, negli anni ‘90 con la nascita del Partito dei Verdi in Germania entrato in Parlamento, si pensava che la spinta verso la sostenibilità avrebbe rapidamente preso il sopravvento. Non è avvenuto allora. E la ragione era perché le soluzioni organizzative e aziendali o sulla vita degli individui che venivano proposte erano economicamente insostenibili. E anche per le persone comuni erano impossibili da adottare con continuità. Pochissimi erano disposti a compiere i sacrifici di cui c’era bisogno. Oggi la situazione è diversa. Non tanto perché l’allarme del cambiamento climatico è preoccupante o perché siamo diventati tutti più inclini a riciclare i rifiuti o a salvare gli orsi polari.
Il punto è che le soluzioni tecnologiche sostenibili oggi sono economicamente vincenti rispetto alle alternative non sostenibili. L’esempio più lampante è il solare fotovoltaico accoppiato alle batterie che sta disegnando l’infrastruttura energetica del futuro, infrastruttura in grado di battere le alternative basate su carbonio, petrolio e gas naturale in aree geografiche sempre più estese.
E nel momento in cui questo avviene il cambiamento è semplicemente inarrestabile. Questo ci riguarda anche come consumatori, pensiamo ad esempio alla flessibilità di una lampada led che cambia colore e intensità, non mi brucia la mano quando lo tocco, dura tantissimo. L’interior designer o l’architetto si inventano delle soluzioni pazzesche posizionando le lampade led in zone impensabili e facendole controllare con lo smartphone. Anche in termini individuali dunque la tecnologia sostenibile è di gran lunga superiore che non l’alternativa. Per quanto riguarda la capacità delle aziende di strutturarsi in maniera da avere prospettive che superano i risultati trimestrali, dipende dall’evoluzione della regolamentazione, della finanza e e della governance. L’Italia, dopo gli Stati Uniti, è stato uno dei primi Paesi al mondo a regolamentare le cosiddette “società benefit”. Parliamo di forme innovative di società di capitali a scopo di lucro che possono strutturarsi includendo nei loro conti anche il loro impatto sulla società, sull’ecosistema, su fornitori e clienti. Si tratta di soggetti che costruiscono un equilibrio molto più resiliente rispetto a quello che massimizza solo l’efficienza economica e produttiva. La diffusione di questo modello sarà altrettanto inarrestabile come la vittoria del fotovoltaico. Se in un futuro prossimo saranno create ancora società indifferenti a questi princìpi sarà lecito chiedere ai loro fondatori “Perché vuoi danneggiare il mondo? A chi vuoi creare danni considerato che le leggi non te lo consentono?”. In questo senso è in corso una trasformazione concreta della società dove la crisi economica sicuramente gioca un ruolo, di nuovo costringendo le persone a mettere in discussione e rivedere metodi consolidati non più adeguati alla realtà. Ma, ribadisco, è la presenza di alternative più valide di quelle precedenti che catalizza un cambiamento duraturo nel tempo.
 

Cloud computing, IoT, intelligenza artificiale, Big Data e altre tecnologie abilitanti spingono da alcuni anni la diffusione di Industria 4.0 e delle smart factory. A che punto ci troviamo in questa evoluzione e dove siamo diretti a livello globale?

L’insieme delle tecnologie intelligenti, da Internet degli oggetti all’Intelligenza Artificiale, ha ormai decenni di storia, almeno in linea teorica e nei principi di base. Ma il suo fiorire richiederà un tempo strabiliante. In effetti oggi siamo circondati da oggetti più o meno stupidi che pretendono che siamo noi a prenderci cura di loro. E invece è naturale che noi possiamo liberarci e che gli oggetti interconnessi fra di loro acquisiscano l’intelligenza necessaria per operare in piena autonomia. Questo passaggio richiederà un lungo periodo di transizione. Periodo, al termine del quale, accanto ad automobili elettriche in grado di negoziare la vendita di una parte dell’energia contenuta nelle batterie, ci saranno ancora autovetture a combustione con un ciclo di vita utile di dieci anni circa. Dunque la ragione per cui la traiettoria sarà ancora molto lunga è perché in realtà siamo agli albori dell’adozione di queste tecnologie.
E quando sciami di robot autonomi andranno nella fascia delle asteroidi a sviluppare colonie per lo sfruttamento delle risorse minerarie, a quel punto potremmo dire che avranno trovato compiuta applicazione quelle tecnologie basate su principi di interconnettività e di intelligenza artificiale che oggi stiamo cominciando a disegnare.


Lei ha trattato in modo approfondito e suggestivo il concetto di singolarità (punto in cui il progresso tecnologico accelera oltre la capacità di comprensione degli esseri umani, ndr). Ritiene che siamo più preparati a gestire il “punto di rottura” rispetto a qualche anno fa?

C’è un detto un po’ sarcastico secondo cui la scienza progredisce attraverso la morte dei suoi più autorevoli protagonisti. Perché bene o male questi sono un punto di riferimento, ma rappresentano spesso anche un blocco alla diffusione di nuove idee. Trent’anni fa quando il concetto di singolarità tecnologica è stato introdotto in una conferenza della NASA, gli esperti di Intelligenza Artificiale l’hanno visto con molto scetticismo. E quando magari si faceva un sondaggio d’opinione presso gli esperti non c’era alcuna convergenza. Non solo sulla possibile data di quando le AI in grado di modificarsi avrebbero cominciato ad acquisire una traiettoria indipendente da quella della civiltà umana, ma nemmeno sulla plausibilità. Trenta anni dopo siamo in una situazione diversa. Non solo gli esperti che negano la possibilità che la Singolarità possa verificarsi stanno diminuendo, ma i fautori cominciano a convergere su date che non sono più tanto lontane. Anzi ce ne sono alcuni come Ray Kurzweil (inventore, saggista, ingegnere capo di Google, ndr), il quale ha rivisto le proprie proiezioni anticipando la data della Singolarità dal 2045 al 2035, in previsione quindi di una accelerazione del cambiamento tecnologico. L’elemento importante è che questi esperti non stanno solo pronosticando ma anche lavorando con modelli computazionali che cercano di assicurare che qualunque sia il grado di indipendenza di queste intelligenze artificiali generali, le loro decisioni e i loro obiettivi siano compatibili con il futuro dell’umanità. Dopodiché i lettori di “Automation Technology” sono probabilmente abituati a pensare a una automazione sempre più spinta e quindi sono pronti anche a capire i contorni di questo mondo che verrà. D’altra parte che la popolazione umana nella sua generalità sia impreparata a questo scenario è assolutamente assodato. Sarà perciò molto importante che la società nel suo insieme stessa faccia di tutto affinché un mondo “post-singolaritariano” possa accogliere con dignità anche persone che non abbracciano necessariamente appieno questi cambiamenti. Tutto ciò richiederà probabilmente un lunghissimo tempo.


Quale dovrebbe essere il modo corretto per far accettare ai lavoratori l’adozione delle nuove tecnologie digitali dentro e fuori le fabbriche? E con quale modello di governance? br
Innanzitutto bisogna riconoscere che qualunque siano i fattori di caso o di merito che hanno portato le persone a occupare un certo livello apicale di una certa organizzazione, queste non sono universalmente correlate con l’onniscienza, anzi.
Gli amministratori delegati o i membri dei consigli di amministrazione non ne sanno del futuro più di un dirigente, di un quadro o di un operaio. Scendere dal piedistallo e riconoscere innanzitutto che siamo accomunati da questo desiderio di capire è una premessa importantissima.
L’alternativa è l’ipocrisia che poi elimina la possibilità di una onesta comunicazione e della gestione degli inevitabilità errori che si fanno. Perché è facile dire dall’alto della propria posizione “mi raccomando, studia questa particolare tecnologia, fai un progetto pilota, poi lo adottiamo e lo difendiamo”, per poi magari punire la persona che ha sperimentato e ci ha messo la faccia, riportando qualche errore assolutamente inevitabile durante questa fase. Mentre è molto più difficile prendere atto che, essendo tutti sulla stessa barca, è necessario decentralizzare le sperimentazioni, al costo di una certa diminuzione della efficienza e di dover fare sperimenti multipli. Questa è la strada necessaria se si vuole mantenre una situazione di leadership in una particolare industria. Sedersi sugli allori e aspettare che gli altri facciano tutti gli errori, illudendosi di avere tempo per poi adottare la soluzione vincente, copiandola, è comodo. Ma non è assolutamente possibile, garantisce solo l’essere perennemente in ritardo. L’aspetto delicato in tutto questo è ritrovare il giusto equilibrio: assicurarsi che gli errori siano circoscritti, che non mettano a repentaglio un’intera azienda, gestire la naturale propensione delle persone al tribalismo, facendo sì che coloro che si mettono in gioco non vengano marginalizzati o esclusi dal sistema immunitario dell’organizzazione che magari punta ai risultati immediati.

Le conseguenze sul lavoro dell’innovazione e dell’automazione dividono gli esperti. Alcune ricerche dicono che la tecnologia potrebbe cancellare fino al 50% dei posti di lavoro o addirittura decretare la fine del lavoro. Altri studi vedono invece opportunità e nuove professioni alla ribalta Esiste un punto di equilibrio tra queste tendenze contrapposte?

Se noi avessimo chiesto ai nostri rispettivi bisnonni se tu e io oggi stiamo lavorando avrebbero fatto una grassa risata. Avrebbero detto ma tu sei pazzo, sei uscito di testa: lo chiami lavoro quello che stai facendo? Sei lì seduto tranquillo a chiacchierare ogni tanto, quando puoi, pandemia permettendo, vai a bere un caffè insieme a qualcuno. Scrivi delle cose strane, i video non capisco bene cosa sono. Insomma chiamarlo lavoro rispetto a me che mi rompo la schiena dalle 6 di mattina alle 6 di sera sui campi e muoio a 40 anni distrutto fisicamente e non vedo l’ora di morire perché non ne posso più: ma stai scherzando?! Sicuramente ci saranno trasformazioni simili e molti di noi saranno affascinati dai nuovi gradi di libertà e dalle opportunità che ne scaturiranno. Sarà possibile disegnare la propria traiettoria di vita dove gli elementi di valore che una persona trasferisce alla società e quello che riceve di ritorno avranno caratteristiche diverse da quelle di oggi. Qualcosa di simile l’abbiamo visto negli anni ’80 quando è iniziata ma maturare la consapevolezza che le capacità he si acquisiscono all’inizio di una carriera professionale devono essere migliorate e aggiornate in modo da permettere a una persona di arrivare alla pensione. Così che anche nella seconda metà della propria carriera si possa contribuire alla creazione di valore economico. Questo modello successivamente è stato aggiornato e adesso lo chiamiamo “formazione continua”. Invece di dire “senti hai cominciato a lavorare in una certa maniera e vent’anni dopo ti facciamo una nuova formazione e per altri vent’anni farai le cose simili a prima ma aggiornate”, oggi le persone non possono aspettare vent’anni, devono essere intraprendenti e le aziende devono investire nel creare le condizioni per la curiosità e la sperimentazione che abbiamo menzionato anche prima. Dopodiché bisogna assolutamente riconoscere che ci sono dei limiti concreti alla adattabilità di ognuno. Se in passato era possibile chiudere gli occhi e pretendere che le persone che morivano letteralmente perché la società si permetteva di relegarle in un angolo. Oggi per fortuna non siamo più in quella condizione. Ma dobbiamo riconoscere i segni anche allarmanti, non necessariamente correlati all’età biologica, del fatto che una particolare persona o intere fasce di persone stanno cominciando a cozzare contro i limiti della loro adattabilità e intervenire. In assenza di cura e attenzione, la società si disgrega.
Un nuovo tipo di solidarietà intergenerazionale, trasversale e transnazionale è una condizione necessaria per la società umana del futuro. Dopodiché la società delle macchine e quella dell’automazione estrema avrà la sua traiettoria e andrà ad esplorare l’universo senza portarsi indietro i pezzi di carne noiosi, lenti e fastidiosi che siamo noi, ma noi in realtà vogliamo sia favorita la civiltà umana in assoluto. Dobbiamo assolutamente investire per prepararci al momento in cui il futuro busserà alla porta per dare una vita dignitosa ad ognuno e per affrontare quel particolare livello di cambiamento a cui riusciremo ad arrivare.

Il profilo
David Orban è fondatore e Managing Partner di Network Society Ventures, un veicolo di investimenti focalizzata in startup in fase seed all’intersezione tra tecnologie esponenziali e reti decentralizzate. È un investitore, imprenditore, autore, conferenziere e leader di pensiero del panorama tecnologico globale. I suoi successi imprenditoriali abbracciano molte aziende fondate e cresciute in oltre venti anni. Ha tenuto oltre 100 conferenze in tutto il mondo per organizzazioni come Abbvie, Cisco, Oracle, Roche, Ernst & Young, Accenture, Gilead, ENEL, Intesa, Banca Sella, Mediolanum, Alphabet, Internet Advertising Bureau, European Foundation for Management Development, GALA, Login e H-Farm. È autore di “Singolarità, con che velocità arriverà il futuro” edito in Italia da Hoepli.

Keywords: David Orban, innovazione, sostenibilità, singolarità tecnologica, Industria 4.0, automazione, società benefit, pandemia, intelligenza artificiale  

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