Nel mio percorso lavorativo e (soprattutto) di vita mi sono spesso ritrovato nel ruolo di “advisor” di piccole start up formate da giovani con tanti progetti, speranze e ambizioni. Nella maggior parte dei casi incontravo startupper nati negli anni ’90, laureati, preparati e determinati a raggiungere il loro scopo. Nel primo colloquio conoscitivo ero solito chiedere loro di raccontarmi che cosa li aveva portati a pensare di iniziare l’avventura di una start up.
La domanda era molto semplice e così iniziavano a raccontarmi di come era nato il progetto, la loro visione ed il modello di business perdendo di vista se stessi. In tutta onestà, il progetto era l’ultima cosa che mi interessava. Quindi li interrompevo e incalzavo “ok, ma come ti vedi tra 10 anni?”. E, senza distogliere il focus dall’argomento, continuavano a raccontarmi la proiezione dell’attività imprenditoriale, la crescita, il mercato e bla bla bla… Io però li interrompevo e ripetevo “si… ok… ma tra 10 anni TU come ti vedi? Cosa pensi di fare e come pensi di essere tra 10 anni?”.
In quasi tutte le occasioni mi sono ritrovato a spiegare che dietro ogni business si celano persone che hanno necessità e desideri. I miei interlocutori erano tutti under 30 e da lì a 10 anni sarebbero stati under 40 con obiettivi e necessità diverse. Argomento molto difficile da comprendere soprattutto quando si hanno poco più di 20 anni ed una strada tutta da percorrere.
Da un certo punto di vista potrei anche sadicamente definire “divertenti” le loro facce “sorprese” e “spaventate” quando gli parlavo di cose come il crearsi una famiglia (e mantenerla), avere del tempo di qualità, coltivare interessi diversi (dal lavoro), doversi prendere cura dei genitori che “invecchiando non vi risolvono problemi ma ve li aggiungono”, portare i figli a scuola o continuare fare sport (tennis, padel, calcetto) e altro ancora.
In realtà non c’era niente di persecutorio da parte mia, anzi. A loro insaputa gli stavo facendo sbattere il naso contro l’opportunità di crearsi una attività sostenibile, almeno dal punto di vista sociale. Li portavo a ragionare sul fatto che avere una vita di qualità avrebbe positivamente influito sulla loro produttività, sulle loro relazioni e su tutto quello che sta attorno ad una idea imprenditoriale.
Io stesso mi sento più produttivo quando sono “in pace” con il mondo circostante, ovvero quando il lavoro non toglie ma è complementare a “tutto il resto”. Anche se può sembrare ironico, già i nostri antenati romani parlavano di otium, il tempo libero e le attività sociali, e lo contrapponevano al negotium, l’attività pubblica ed il lavoro. Infatti per i ceti sociali più elevati, l’otium permetteva di ritagliarsi uno spazio di libertà funzionale a ristabilire un equilibrio psico-fisico e solo chi riusciva a conciliarlo con il negotium poteva emergere.
Questi 2 contesti sono apparentemente lontani ma in realtà nascondono un importante aspetto legato al cambiamento, alla resilienza ed all’innovazione. Non serve solo una pianificazione accurata del proprio business plan, ma è necessario anche guardarsi dentro ed immaginare che i cambiamenti che (sicuramente) arriveranno dall’esterno saranno inevitabili. Un business plan può essere redatto in modo dettagliato ed i rischi possono essere analizzati e mitigati, ma tutto ciò che esterno riserva un sacco di sorprese che devono essere accolte, affrontate e gestite in modo resiliente, portando un cambiamento sia a noi che al nostro modo di gestire le nostre attività.
Per questo motivo una revisione continua ed innovativa del business plan che include le nuove personali necessità può generare nuovi paradigmi. Il cambiamento continuo è l’unica costante che ci accompagna in qualsiasi percorso che scegliamo di fare ed è nostro compito rimettere continuamente in equilibrio otium e negotium. Non sentiamoci troppo lontani dai nostri antenati romani.